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NAVI DEI VELENI. Chiesta l'archiviazione. Caso chiuso: la Cunski affonda tra le carte

Dieci pagine per porre fine alla vicenda del relitto di Cetraro. Sono firmate dalla Dda di Catanzaro, che il sette marzo scorso ha chiesto al Gip di archiviare definitivamente il caso. Francesco Fonti si è inventato tutto e nei mari di Calabria non vi è nessuna nave chiamata Cunski, carica di fusti radioattivi, scrivono il procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli e il sostituto Alfonso Lombardo. Caso chiuso, dunque, e questa volta con l'ufficialità della giustizia.
In Calabria c'è chi si prepara ora alla seconda fase, quella della vendetta. Guai a chi ha sostenuto la battaglia per la verità sul traffico delle scorie, uccidendo il turismo, fonte principale di reddito per la costa del cosentino. In prima fila nella battaglia c'è Calabria Ora, guidata da Piero Sansonetti. «C'è anche chi si è arricchito scrivendo libri su tali fandonie - commenta Guido Scarpino sull'edizione dello scorso 27 marzo - e chi, ancora più furbo, senza arte né parte, ha raccolto premi immeritati diventando personaggio mediatico». Un riferimento, probabilmente, al Comitato Natale De Grazia di Amantea, che pochi giorni fa ha ricevuto il premio Borsellino. La caccia, insomma, è iniziata.
Occorre però leggere con attenzione le pagine della richiesta di archiviazione presentata dalla magistratura e, soprattutto, inserire questa decisione nel complesso e drammatico quadro della storia delle navi dei veleni. La ricostruzione dei magistrati si basa esclusivamente - stando alla richiesta presentata al Gip - sull'indagine svolta dal Ram, ovvero il Reparto ambientale marittimo. Con un unico obiettivo: la nave indicata da Francesco Fonti è una nave dei veleni? La risposta è nota, si trattava in realtà di un piroscafo affondato nella prima guerra mondiale. I Ram nella presentazione dei risultati della ricerca fatta nell'ottobre del 2009 dalla Mare Oceano al largo di Cetraro ci misero anche un tocco di ironia, mostrando la foto del capitano del sommergibile tedesco autore dell'affondamento. Ecco il vero colpevole, spiegarono.
La chiusura dell'inchiesta pone anche una pietra tombale sul metodo d'indagine che costò la vita al capitano Natale De Grazia, l'ufficiale delle Capitanerie di Porto che per primo, nel 1995, indagò sulle navi a perdere. De Grazia aveva intuito la chiave di questo tipo di indagini. Partire dal relitto per poi descrivere i traffici dei veleni e delle scorie radioattive è una strada che rischia di non portare da nessuna parte: se non c'è il relitto tutto si ferma. De Grazia partiva nelle sue indagini da un accurato lavoro di intelligence sulle rotte, analizzando le caratteristiche delle navi affondate nel Mediterraneo. E, da investigatore di razza, cercava di sviluppare i contatti con fonti riservate, ricostruiva il contesto, tracciava le relazioni tra i diversi trafficanti, non solo di rifiuti. Nella stanza che occupava a Reggio Calabria la parete era occupata da una cartina d'Italia, con i punti di affondamento e i percorsi via terra. Morì - in circostanze considerate ancora oggi sospette - mentre era in viaggio verso La Spezia, dove - secondo alcune ricostruzioni più recenti - avrebbe voluto incontrare un informatore molto importante.
C'è un punto chiave che viene glissato, evitato nella richiesta di archiviazione per il caso Cetraro: esiste un problema di inquinamento in quelle acque? La risposta non può che essere positiva, almeno secondo le uniche analisi note. Nel 2006 l'Arpacal - su richiesta della magistratura di Paola - fece un'indagine sulla qualità delle acque al largo della costa cosentina. Tre punti - a ridosso del luogo indicato da Francesco Fonti - risultarono contaminati da metalli pesanti, tanto che ne scaturì un'ordinanza di interdizione della pesca. Nell'agosto del 2008, però, l'ordinanza viene ritirata, nonostante altre analisi effettuate sempre dall'Arpacal avessero confermato i valori riscontrati due anni prima. Non solo. La Procura di Paola aveva chiesto di approfondire il quadro, di stabilire se esistessero radionuclidi artificiali nel pesce, visto che l'Arpacal aveva documentato la presenza di Cesio 137. Nulla venne fatto.
«Se non si trova un relitto, non esiste il fatto», commentano informalmente dal Reparto ambientale marittimo, considerato reparto di eccellenza delle Capitanerie di porto, mettendo la parola fine - dal punto di vista del Ministero dell'Ambiente - alla vicenda.
Come in tutte le storie di navi e di traffici la verità difficilmente viene a galla. C'è un punto nella vicenda di Cetraro che nessuno ha finora verificato. La localizzazione del relitto arrivò da fonti confidenziali, da pescatori che sostenevano di aver visto, in quello spazio di mare, affondare una nave. La presenza del Catania era nota, in un punto distante circa sette chilometri. Ora gli ufficiali del Ram sostengono che quel piroscafo è stato affondato in realtà dove doveva essere il relitto indicato da Fonti. Rimane una domanda finale: qualcuno ha verificato - anche con un semplice sonar - se sul punto dove doveva essere il Catania - secondo i registri nautici - non vi sia nessun relitto? Questa sarebbe stata senza dubbio la prova che avrebbe fugato ogni ragionevole dubbio. Prova che nel fascicolo non c'è.

Fonte: ilmanifesto.it (1 aprile 2011, di Andrea Palladino)

02/04/2011
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