di Bruno Pino
Era stato sottoposto ad una operazione al cuore, per sostituire la valvola mitralica. Una patologia di cui soffriva già da anni. Ma quel 12 novembre del 1975, Nando Aloisio rimarrà sotto i ferri.
«La notizia - aveva scritto il compianto Peppe Verduci nel suo ultimo libro di ricordi - mi fu data per telefono dal cognato Alfredo Bossio direttamente dall'Ospedale di Buenos Aires dove Nando ancora giaceva in attesa dell'autopsia disposta dal Consolato Italiano e voluta dai fratelli Italo e Settimio dopo aver esposto alla Magistratura il fatto che i medici avevano cambiato la valvola mitralica proprio per farlo morire». Una morte forse annunciata che, ricorda ancora Verduci, «aveva causato un subbuglio a Buenos Aires; gli emigrati erano insorti con manifestazioni di solidarietà alla famiglia del loro dirigente sindacale, scomparso per opera dei fascisti di Peròn».
L'Argentina in quegli anni era in pieno caos. La situazione in cui agiva Aloisio, come quella del paese sudamericano, in grave crisi economica e politica, in un clima di terrorismo, era fortemente pericolosa, specialmente per coloro i quali militavano a sinistra e che svolgevano attività politica e sindacale. «Ricordo ancora - ci aveva raccontato tempo addietro Alfredito, uno dei figli del sindacalista - le tante volte che mio padre fu minacciato dalle bande fasciste. Entravano nell'ufficio di notte, rompevano tutto e lasciavano carte intimidatorie».
Proprio nell'ultimo dei suoi viaggi a Roma per le attività di dirigente dell'Inca Cgil per il Sud America, Aloisio non volle dare ascolto all'amico compagno di partito Giancarlo Pajetta, responsabile Esteri di Botteghe Oscure, che lo pregava di farsi operare in Italia. L'ipotesi che circolò allora - come già accennato -, soprattutto nella convinzione della famiglia, è che per la morte del sindacalista ci misero lo zampino i militari che di lì a poco, il 24 marzo 1976, avrebbero preso il potere e instaurato un regime di terrore.
Fernando Aloisio, nella terra dei Gauchos c'era andato da emigrato nel 1948. Nato ad Aiello Calabro (Cs) il 28 aprile 1923, si era diplomato come perito agrario, e ricoperto dal 1944 al 1946 la carica di presidente dell'Ucsea (ufficio comunale statistico economico dell'agricoltura), «un ente che aveva - scrive Giuseppe Masi, in "Socialismo e amministrazione nella Calabria contemporanea" - il compito di esercitare controlli sulle trebbiatrici durante la lavorazione del grano e di registrare, nello stesso tempo, tutte le denunce a cui erano tenuti i produttori locali in tema di ammassi granari e oleari».
L'impegno in politica lo aveva portato, nel 1944, ad organizzare la Camera del Lavoro di Aiello e la sezione locale del Partito Comunista di cui fu primo segretario; e poi a partecipare attivamente nel 1946 alla campagna in favore della Repubblica per il Referendum che diede all'Italia le sue attuali Istituzioni democratiche. Nel 1947-48 è con i contadini della sua regione per l'occupazione delle terre. «Col filo spinato e paletti - rievoca Verduci - sia sul greto del torrente Maiuzzo che su quello del fiume Oliva, avevamo delimitato una proprietà. (...) Quelle terre le occupammo e le assegnammo, delimitandole con bandierine rosse, ai contadini ...».
Dopo quell'esperienza, chiuso per ordine governativo l'ufficio dell'Ucsea, Nando si ritrovò senza lavoro e venne il momento di partire. Come fecero in quel periodo tantissimi altri calabresi, per dare sostegno economico alla numerosa famiglia.
Nel nuovo mondo inizia a lavorare come responsabile di una grande impresa agricola del Rìo Negro. Poco dopo, a Buenos Aires il 21 settembre 1950, sposa Emma Cuglietta, una ragazza del suo paese emigrata anni prima.
Nella capitale federale, in cui si trasferisce stabilmente nel '54, prende parte attiva alla vita della collettività italiana. Fa parte della Commissione Direttiva dell'AIMI (Unione e Benevolenza) e di Feditalia (Federazione delle Società Italiane in Argentina), ed è membro attivo del Gruppo Permanente del Lavoro e del Comitato di Coordinamento delle attività assistenziali del Consolato Generale d'Italia.
Intensifica, poi, con la nomina a presidente della Commissione Nazionale del Patronato Inca-Cgil, e con la partecipazione come esperto del Comitato Consultivo degli Italiani all'Estero con sede a Roma, l'attività a favore degli emigrati. Assieme a tanti altri calabresi, come Filippo Di Benedetto di Saracena, anch'egli dirigente dell'Inca, Aloisio infatti è stato - scriveva anni fa Gaetano Cairo, che fu Consigliere CGIE - tra coloro i quali hanno «... costruito la base politica del riscatto dei diritti politici degli italiani all'estero».
Una tematica, questa che riguarda la vicenda umana e le condizioni degli emigrati, a cui dedica molto tempo e diversi incontri e conferenze. Come quella doppia tenutasi a Cosenza (nel salone di rappresentanza del Comune e nella sezione PCI "Togliatti"), con il magistrato Oreste Nicastro, l'avvocato Ernesto Corigliano, con l'amico e compagno Peppe Verduci, e gli onorevoli Giacomo Mancini e Mario Alicata.
Quella di Fernando Aloisio, figura di primissimo piano per la storia dell'emigrazione italiana, «il grande, carismatico personaggio» e «l'inobliabile "Nanduzzo"», come lo chiama Francesco Volpe, è dunque una storia di spessore che andrebbe approfondita, attraverso la ricerca documentale del suo impegno politico-sindacale. A cominciare dall'archivio comunale del suo paese natale dove svolse il ruolo di amministratore; agli archivi della federazione provinciale del Pci dell'epoca; a quelli dell'Inca-Cgil, ecc. Sarebbe una operazione culturale opportuna anche la dedica di un luogo pubblico (una strada, una piazza, ecc.) nella sua Calabria.
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