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Abolire il Mezzogiorno? - Qual'è il vero problema

 

Ho letto questo libricino di 145 pagine qualche anno fa e benché possa sembrare datato (edito Edizioni Laterza nel 2003) l'argomento conserva una estrema attualità. Vi porterà a vedere la nostra terra e gli eventi che l'hanno riguardata negli anno '80 sotto una nuova luce.

Danilo Amendola

 

Abolire il Mezzogiorno

 

di Gianfranco Viesti

Il problema dell’Italia è il Mezzogiorno Ma perché il Mezzogiorno è un problema? Contrariamente a quello che molti pensano, non è la terra 

della miseria e del sottosviluppo: il suo cittadino medio fa parte del 15% più ricco del mondo. Certo, all’interno del Sud vi è una fascia di popolazione che è povera; la povertà italiana, che è in misura rilevante povertà meridionale, è un problema serio; ma non è vero che in media le famiglie del Sud sono povere. Gli uomini e le donne che nascono al Sud hanno una speranza di vita del tutto simile a quella media italiana ed europea; anche se qui, la mortalità dei bambini durante il primo anno di vita è un po’ maggiore rispetto alla media nazionale ed europea. Ma d’altra parte una durata media della vita simile nasconde cause di morte diverse; al Sud si muore molto meno per suicidio, rispetto al Centro-Nord e ancor meno in confronto ai paesi nordeuropei. E al Sud si nasce di più; i tassi di natalità sono decisamente più alti che nel Centro-Nord, e più simili a quelli medi europei. I ragazzi meridionali vanno disciplinatamente a scuola: l’evasione dell’obbligo scolastico è ormai molto ridotta. Stiamo parlando degli indicatori più importanti dello sviluppo umano: speranza di vita, sanità, istruzione. Il quadro, seppur con diverse criticità, non è certo catastrofico. Eppure è noto a tutti che il Mezzogiorno è un problema.

 

Il divario

Un modo tradizionale di vedere il «divario» è confrontare il reddito pro-capite del Mezzogiorno con il resto d’Italia. Nella sua versione più estrema, ma molto diffusa, il problema meridionale sta esclusivamente nel divario: giacché questo scarto è oggi grosso modo quello del secondo dopoguerra, in cinquanta anni non è cambiato niente. Ma ciò non tiene conto che il reddito è, in termini reali, più di quattro volte maggiore rispetto al 1950; che la speranza media di vita è passata da 49 a 79 anni, che i meridionali laureati sono il 5% e non più meno dell’1% della popolazione; che un conto è essere il 57% di un’area settentrionale ancora largamente rurale e stremata dalla guerra e un conto è essere il 57% di una delle macro-regioni più opulente del mondo.

Ma perché il divario è un problema? Le cose vanno guardate prima dal punto di vista economico, e poi da quello politico. Il primo ha a che fare con quello che gli economisti pensano della crescita economica. Molti economisti hanno creduto a lungo, e molti economisti ortodossi credono tuttora, alla legge della convergenza: se i mercati funzionano bene e vi è perfetta mobilità geografica di capitale e lavoro, le regioni e le nazioni più arretrate tendono naturalmente a crescere più di quelle maggiormente avanzate. Perché? Perché nelle aree più povere c’è tanto lavoro disponibile ma poco capitale; quindi se i salari sono contenuti, gli investimenti rendono molto; i capitali si spostano nelle aree più povere e ne favoriscono la crescita (da qui la semplice indicazione di politica economica di alcuni: abbassiamo i salari al Sud e questo, magicamente, si svilupperà). Se ciò corrisponde a verità, i divari nello sviluppo sono l’eccezione; questo è il problema. Ma, è vero? Numerosi economisti non credono all’automatismo della convergenza. Vedendo come va il mondo è difficile dar loro torto: casi di paesi arretrati che crescono molto non mancano, ma non sono certo la regola generale. Perché? Perché essere ricchi e sviluppati può aiutare a crescere ancora: i mercati sono spesso caratterizzati da «economie di scala», e chi produce su dimensioni maggiori è avvantaggiato; chi inizia prima a produrre, raggiunge prima dimensioni maggiori, impara di più dall’esperienza. Conta cioè la storia. E conta la geografia: essere vicini ai mercati più grandi è meglio che esserne lontani, cosa assai rilevante nel caso italiano. Tutto ciò, per fortuna, non porta a dire che la convergenza sia impossibile, ma che le condizioni che possono renderla possibile sono complesse; che sia relativamente normale esistano disparità tra regioni. C’è un divario sensibile e persistente: ma, ancora, non è del tutto ovvio perché ciò sia un problema.

Lo è per motivi politici. Il divario è un problema sotto il profilo dell’uguaglianza fra i cittadini. Per questo ridurlo è sempre stato l’obiettivo di quanti pensavano che con la crescita economica l’Italia dovesse annullare o ridurre il più possibile le grandi disparità interne; che una maggiore eguaglianza nel reddito dei cittadini, fosse un obiettivo in sé. Una valutazione prettamente politica. Oggi, questa valutazione è assai meno diffusa che in passato (anche nella sinistra?) e il problema politico del divario ha un’interpretazione assai diversa. Il punto, come noto, è il seguente. La redistribuzione operata dal bilancio pubblico ha in Italia anche una forte dimensione regionale: la spesa pubblica pro-capite è simile in tutte le regioni; ma, dato che c’è un divario nei redditi, il Nord paga più tasse del Sud; lo stato sociale nel Mezzogiorno è parzialmente finanziato dalle tasse dei cittadini del Nord. La redistribuzione implicita operata dal bilancio pubblico dal Nord al Sud è un evento normale, conseguente ai diritti e ai doveri di cittadinanza. Ma questa, ancora, è una valutazione politica. E i sentimenti degli italiani sono fortemente mutati quantomeno a partire dagli anni Novanta: la forte espansione e le distorsioni del welfare «all’italiana», il forte aumento della pressione fiscale e l’apparente persistenza dei trasferimenti al Sud hanno prodotto una crescente pressione per la riduzione dell’intervento pubblico. Ancora di più: hanno prodotto una forte opposizione politica alla redistribuzione territoriale, fino alla proposta di dividere il paese come soluzione diretta al crescente carico fiscale sui cittadini del Nord, e fino all’interpretazione del federalismo, data dalla Lega e accettata supinamente dall’attuale maggioranza, per cui lo spostamento di poteri verso le regioni è esplicitamente finalizzato affinché a quelle più ricche sia consentito di trattenere la quota maggiore possibile del gettito fiscale generato sul proprio territorio.

Un paese può convivere con divari interni anche rilevanti. Ma a patto che le regioni povere, pur mirando in ogni modo a ridurli, accettino le difficoltà della convergenza, e quindi la relativa «normalità» delle disparità nel reddito; e che le regioni ricche accettino la normalità della redistribuzione, come effetto dei doveri e dei diritti di cittadinanza. Questo oggi in Italia non accade. Dunque il problema del divario è politico prima che economico; è nazionale e non locale: riguarda il modello di Stato che si realizza, il patto nazionale fra i suoi cittadini. Nella complessa e faticosa trasformazione del modello istituzionale della prima repubblica dovrebbe essere uno dei temi centrali del dibattito politico; un tema di fondo, che può dividere destra e sinistra, ma che per un insieme di motivi non è invece al centro dell’attenzione e viene evocato solo nelle contrapposizioni (purtroppo frequenti e pericolose) fra il Nord e il Sud.

 

Le risorse inutilizzate

Un altro modo di vedere la stessa situazione è considerare che il tenore di vita nel Mezzogiorno è garantito solo in parte dalla struttura economica locale, cioè da quanto l’area riesce a produrre; in parte è reso possibile dall’intervento pubblico. Daccapo, questo è un problema politico: è infatti normale che ciò accada nelle regioni più deboli degli Stati nazionali. Ma in Italia è questione di intensità e di dinamica: vi è stato un lungo periodo nel quale il peso dell’intervento pubblico a sostegno del reddito del Mezzogiorno è progressivamente cresciuto. Dopo la crisi fiscale del 1992 tale dinamica si è arrestata, e i miglioramenti che ci sono stati nella seconda metà degli anni Novanta sono, in buona parte, dovuti a forme di sviluppo autonomo; ma il peso delle risorse trasferite sul reddito rimane alto.

Questo ci porta al cuore del problema, racchiuso in questa domanda: perché l’economia delle regioni del Sud non è in grado di generare autonomamente, con le sue attività economiche, un alto livello di reddito? La risposta è assai semplice: perché nel Mezzogiorno non si riesce pienamente, sia da un punto di vista quantitativo che qualitativo, a sfruttare le risorse che sono disponibili al suo interno e ad attrarre quelle che mancano dall’esterno. Il problema non è tanto che il Sud sia relativamente più povero rispetto ad un Nord ricchissimo (se il divario è sostenibile politicamente), ma che non riesca a crescere, sfruttando e valorizzando le ricchezze di cui dispone. Ma perché ciò accade? Anche in questo caso la risposta è relativamente semplice: a causa delle complessive condizioni del contesto meridionale. Si tratta certo di condizioni fisiche ed infrastrutturali. Ma il punto non è tanto e solo questo, perché molte reti ci sono ma sono male o poco utilizzate; non è solo questione di quantità, ma anche di qualità delle opere pubbliche. Guardare agli assetti fisici ed infrastrutturali con eccessiva enfasi – come fa ad esempio l’attuale governo – può portare a conclusioni errate.

La sottoutilizzazione delle risorse è infatti dovuta prevalentemente a condizioni istituzionali, a cominciare dal funzionamento di servizi pubblici essenziali: giustizia, sanità, sicurezza. Ciò si collega al funzionamento ancora insufficiente delle amministrazioni pubbliche. Sono poi deboli istituzioni di natura direttamente economica e basate sulla fiducia reciproca (il sistema bancario, le associazioni industriali e agricole, i consorzi fra imprese). Questo determina l’incompleto utilizzo delle risorse disponibili e quindi una crescita insoddisfacente. In tal senso va fatta una riflessione fondamentale. È vero: tutte le province del Mezzogiorno hanno livelli di sviluppo economico inferiori a quelli medi del paese, e quindi condividono il problema del «divario». Ma questo non significa certo che sono tutte uguali. Vedere il Mezzogiorno contemporaneo (così come quello del passato) come un insieme uniforme è l’errore più grave che si possa compiere. Non si dimentichi che si tratta di un’area enorme: da solo il Mezzogiorno sarebbe il ventesimo paese del mondo nella graduatoria del PIL, giusto davanti a Svezia, Belgio, Svizzera e Indonesia. Con questo non si vuole scoprire che vi sono aree del Mezzogiorno molto sviluppate; né che non sia possibile rappresentare il problema dello sviluppo dell’intera area come un problema di assetti del contesto territoriale e socioeconomico e di carenze istituzionali che determinano una sottoutilizzazione del potenziale di crescita. Questo vale per tutti. Quel che varia, e moltissimo, sono le risorse disponibili e gli ostacoli che si frappongono allo sfruttamento del loro potenziale. E questo ha una fondamentale conseguenza: che il problema della «crescita» abbia connotati diversissimi nelle diverse aree del Sud e che le cose da fare concretamente nelle diverse aree del Mezzogiorno siano molto diverse.

 

Il problema del Mezzogiorno è l’Italia

Resta la domanda più difficile: spiegare perché ciò accada. Spiegare perché, ancora nell’Italia contemporanea, la debolezza delle istituzioni e dei contesti lasci inutilizzate grandi risorse, determini disoccupazione, rallenti la crescita. C’è chi avanza una risposta semplice, e in quanto tale, suggestiva: ciò dipende dal fatto che i meridionali sono meridionali. Sono cioè una popolazione con culture, usi, costumi che ne impediscono lo sviluppo: senza senso civico, senza voglia di rischiare, senza capacità imprenditoriali. Un pezzo di mondo tutto speciale, dove lo sviluppo non attecchisce. A leggere la grande stampa quotidiana e a guardare la televisione, questa convinzione negli ultimi anni si è sicuramente rafforzata: due terzi degli imprenditori del Nord-Est dà una valutazione negativa della mentalità, delle abitudini, degli atteggiamenti verso il lavoro dei meridionali.1 Lì lo sviluppo potrebbe, eventualmente, attecchire solo se diventasse simile «alle regioni più civili»: essendo il Sud un Nord mancato, la soluzione sta nel rendere il Sud sempre più simile al Nord. La spiegazione, argomentata recentemente in maniera più diffusa di quanto sia possibile in questa sede,2 non sta in immutabili connotati etnico-sociologici; questa situazione, invece, dipende in misura principale dalle forme attraverso cui è avvenuta la regolazione politica, sociale ed economica sia a livello nazionale che locale, in Italia. L’ipotesi è cioè che questa situazione dipenda da precise cause storiche, in particolare dall’evoluzione della prima repubblica e dall’adattamento della società e dell’economia meridionale a quelle condizioni. Il Mezzogiorno è un pezzo di mondo «normale», che ha problemi paragonabili a quelli di altre aree deboli; problemi che, come tutti i problemi, possono essere risolti. Al mutare della regolazione la situazione può mutare: le trasformazioni, sorprendenti, profonde e diversificate che si sono avute nel Mezzogiorno dopo il 19923 lo dimostrano chiaramente. E se questo è vero, ha una implicazione rilevante: non si tratta di diventare più simili al Nord, ma di migliorare restando se stessi.

Con questo non si vuole negare che i meridionali abbiano rilevanti responsabilità per il debole sviluppo e che nelle tradizioni e nelle culture specifiche del Mezzogiorno vi siano elementi anche fortemente negativi. Ma è questo che spiega tutto? Al Sud è stata ed è forte la «mobilitazione individualistica», cioè la ricerca di una soddisfazione degli interessi individuali: ma essa dipende solo dalle attitudini meridionali, e non anche dal fatto che il welfare state italiano sia stato molto più indirizzato all’erogazione di benefici e servizi agli individui che non alla costruzione di servizi pubblici per tutti? Si pensi al degrado del territorio e al ruolo della speculazione edilizia: dipende solo dalla tolleranza per l’illegalità o è anche connessa alla bassa capacità di regolazione dell’urbanistica nell’intero paese? Il punto è che il debole sviluppo del Mezzogiorno non è una condanna perpetua, dovuta alle attitudini delle sue genti. È, al contrario, un fenomeno che ha stretti legami con l’evoluzione dell’Italia del dopoguerra. Il problema dell’Italia è il Mezzogiorno, certo; ma il problema del Mezzogiorno è che si trova in Italia.

Le conclusioni di questo ragionamento sono due. La prima è che l’insufficiente crescita delle regioni del Sud è strettamente connessa al quadro nazionale di riferimento; non è certo solo questo a determinarle, ma è assai importante. Ad esempio la qualità della pubblica amministrazione, al Sud a lungo scavalcata da istituzioni straordinarie e che conseguentemente ha maturato modeste capacità di erogazione di servizi di interesse generale; le caratteristiche del welfare, che determinano diffuse iniquità e soprattutto favoriscono strategie di aggiustamento individuale; la combinazione fra bassa qualità della pubblica amministrazione e distorsioni del welfare, che rende scarsa la dotazione di beni pubblici. La regolazione centralizzata del mercato del lavoro, che lo rende poco sensibile alle differenze locali, ma al tempo stesso offre minori garanzie di reddito e occasioni di promozione dell’occupazione e finisce con il tollerare il sommerso. La regolazione di molti mercati di beni e servizi che ostacola sia lo sviluppo d’impresa, sia la fornitura di servizi di ragionevole costo e qualità. Il «federalismo» che si va profilando rischia di diminuire il livello dei servizi pubblici nel Sud.

Tutto questo ha un’implicazione semplice ma radicale: il Sud può crescere se cambia, in molti aspetti il suo modello di funzionamento, l’Italia. Ci si deve guardare bene da una pericolosa ma diffusissima illusione: che la soluzione stia in politiche speciali per il Sud, magari banalmente centrate sull’incentivazione agli investimenti delle imprese, come nell’Italia degli anni Sessanta, in cui generosamente ma erroneamente ci si illudeva che la fabbrica cambiasse l’economia, l’economia cambiasse la società e questo portasse semplicemente e rapidamente lo sviluppo. Al contrario: la soluzione del «problema meridionale» non sta in «politiche meridionali», ma nel cambiare alcune rilevanti politiche nazionali. Richiede tempo, una rotta riformatrice di lungo periodo. Perché il Mezzogiorno cresca ci vuole un’Italia diversa. Ma questo non basta: pone condizioni diverse e migliori per lo «sviluppo», ma non lo determina automaticamente. Un’altra pericolosa illusione, coltivata nel periodo più recente da non pochi segmenti delle forze di centrosinistra, come ha giustamente notato Carlo Trigilia,4 è stata quella che basti cambiare la regolazione nazionale per innescare lo sviluppo locale. È invece condizione necessaria, ma non sufficiente.

La seconda conclusione di questo ragionamento è allora che, in un quadro nazionale più favorevole, la crescita del Mezzogiorno non potrà che scaturire dalla sommatoria di processi di crescita diversificati dei territori, dei sistemi di imprese e delle società locali che lo compongono. La crescita «del» Sud sarà la crescita «dei» Sud, attraverso percorsi diversi, portato innanzitutto dalla diversità delle risorse (fisicoinfrastrutturali, agro-ambientali, umane, culturali, imprenditoriali) disponibili. Sarà dunque (se ci sarà), disomogenea per intensità e soprattutto per qualità. Tale crescita, non verrà, se non in alcuni casi, dalla grande fabbrica; potrà venire dal consolidamento di distretti industriali, dall’affermarsi di distretti turistico-culturali, dall’economia dei parchi naturali, da aree di agroindustria di qualità, dal risanamento sociale e dallo sfruttamento del capitale umano e scientifico delle sue città. Questo è, tra l’altro, ciò che è accaduto dopo la «grande svolta» del 1992: territori sempre più diversi, nella quantità e nella qualità del proprio sviluppo.

Il punto è che, come in tutto il mondo, affinché percorsi di sviluppo locale accelerino e si rafforzino ci vogliono non solo risorse di base disponibili (che in gran parte del Sud ci sono), ma anche istituzioni locali, cultura dello sviluppo e classi dirigenti di qualità: e sono queste tre ultime condizioni quelle che in molte delle aree del Sud ancora mancano o sono insufficienti. Ancora una volta il problema, più che economico (come combinare in maniera tecnicamente efficiente le risorse disponibili) è politico: come far sì che le comunità locali riconoscano le risorse disponibili e agiscano collettivamente per determinare condizioni che consentano alle imprese di combinarle in maniera tecnicamente efficiente. Non è molto difficile immaginare cosa bisognerebbe fare per valorizzare a fini turistici le straordinarie ricchezze dei parchi naturali del Sud: ma perché questo accada occorre che muti la regolazione politica, culturale e sociale di quelle aree. Servono dunque politiche locali di sviluppo. Non disegnate a tavolino o scritte in qualche piano regionale (o, peggio, da qualche sopravvissuta istituzione nazionale che «deve portare al Sud lo sviluppo»), ma faticosamente progettate e messe in atto dalle società locali. Politiche, per propria natura complesse e sofisticate, che generino con il tempo classi dirigenti, istituzioni nuove e più efficaci e cooperazione interistituzionale, fiducia e aspettative positive, qualità della vita, voglia di investire nelle imprese e nel proprio capitale umano; che trattengano almeno in parte le risorse più pregiate che oggi vanno via (400.000 nuovi emigrati dal Sud al Nord-Est dal 1996 ad oggi) e che attirino – non con la sovraincentivazione agli investimenti, ma con la qualità del tessuto locale – intelligenze, capitali, tecnologie, imprese. La loro governance è allora l’aspetto più importante; e su come disegnare queste politiche, anche a partire dalle esperienze degli ultimi anni, la sfida maggiore per la cultura riformatrice del nostro paese. Una nota conclusiva. L’esperienza dei governi di centrosinistra da entrambi questi punti di vista (regolazione nazionale, regolazione locale) è stata varia, con luci ed ombre, successi e sconfitte.5 Sarebbe il caso di rileggerla a fondo, con serenità ma anche con grande capacità critica e autocritica. Se sono vere anche in parte le tesi che qui sono state sostenute, infatti, il Mezzogiorno non è un immancabile, scontato e soprattutto noioso punto che non può mancare in ogni programma politico, ma una fondamentale cartina al tornasole attraverso cui misurare le necessità di trasformazione dell’intero paese, nonché la capacità di una rinnovata coalizione riformatrice di disegnare moderne politiche all’altezza di questa sfida.

 

 

Bibliografia

1 Cfr. Fondazione Nord Est, Nord Est e Mezzogiorno. Tra nuove relazioni e vecchi stereotipi, Donzelli, Roma 2002.

2 Cfr. G. Viesti, Abolire il Mezzogiorno, Laterza, Roma-Bari 2003.

3 Cfr. G. Viesti, Un Mezzogiorno diverso, in «Il Mulino», luglio-agosto 2001.

4 C. Trigilia, La crisi del modello socialdemocratico e i dilemmi del centrosinistra italiano, in «Il Mulino», maggio-giugno 2002.

5 Cfr. Viesti, Abolire il Mezzogiorno, cit.

inserimento a cura di D. Amendola
02/01/2009
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