di Andrea Palladino - AMANTEA (COSENZA)
Idrocarburi, arsenico, cromo, cobalto, antimonio, nikel. Le prime analisi dell'Arpacal consegnate alla procura di Paola confermano l'inquinamento industriale del fiume Oliva
«Non ho mai visto un camion in queste strade, nulla di nulla... questa storia, come si dice qui, è tutta 'na camorra, 'na tarantella». Nel piccolo borgo di contrada Gallo, sulle pendici della valle del fiume Oliva, le donne in nero si incamminano verso le case, quando la sera è vicina. Si parlano quali sussurrando, abbassano leggermente lo sguardo, ma gli occhi neri e intensi di questo pezzo di Calabria non smettono di guardarti. Sembra quasi una nenia, antica, tramandata: «Ma quali veleni, ma quali rifiuti, ma quali camion... Nulla, non c'è nulla». Un anziano appare sull'angolo della strada, quasi a dimostrare con i suoi ottant'anni che qui, sulle sponde del fiume dei veleni, nessuno muore. Apre le porte della cantina, offre il vino rosato che viene dalle terre bagnate dalle acque che passano attraverso la briglia dove la Procura di Paola ha trovato almeno centomila metri cubi di idrocarburi, ed è quasi una sfida verso chiunque venga qui a chiedere, a guardare questa terra tragica: «Io ne bevo due litri al giorno, guardatemi: qui non c'è nulla».
È un attimo, quella poca luce che filtra attraverso le nuvole grigie e autunnali sparisce. La donna lo sguardo non lo abbassa, ma cambia registro, si ferma qualche secondo: «Aveva ventotto anni mia figlia, mai una febbre, nulla. In pochi giorni se ne andata». Un tumore fulminante, sedici anni fa. «E poi mio marito, aveva poco più di cinquantanni, se n'è andato cinque anni fa». A contrada Gallo, raccontano, una persona su dieci è stata colpita da un tumore. «Ma non è così anche a Roma?», subito sottolineano gli anziani che questa terra non la lasceranno mai. No, non è così a Roma. Non è così a Cosenza, non è così nella maggior parte del paese. Qui si muore e si tace.
Ieri nell'ufficio del procuratore di Paola Bruno Giordano sono arrivate le prime analisi dell'Arpacal sui carotaggi nella valle dell'Oliva, realizzati la scorsa estate lungo otto chilometri e mezzo di percorso del fiume. Numeri che potrebbero dare la risposta definitiva a quel groviglio di storie e di piste investigative che attraversano la valle da tre anni, indicando, forse, un responsabile per quelle morti che per prime vennero segnalate dallo studio del professor Brancati, voluto dal procuratore Giordano. Leggendo i cilindri di terra raccolti - oltre seicento - è possibile disegnare una prima, e ancora parziale, mappa della devastazione ambientale compiuta a pochi chilometri dalle spiagge di Amantea. Ad iniziare dalle sostanze: idrocarburi, arsenico, cromo, cobalto, antimonio e nikel. Sostanze arrivate da decine di industrie che qui non hanno mai avuto neanche un ufficio. Uno sversamento iniziato, probabilmente, nei primi anni novanta, poco prima della morte a soli ventotto anni della figlia della donna in nero di contrada Gallo. Proseguita fino a due o tre anni fa, hanno spiegato i tecnici, cercando di interpretare le diverse concentrazioni trovate sui campioni. Quasi vent'anni di veleni, di silenzi, di complicità.
Trovare un testimone o anche semplicemente una fonte riservata è una vera impresa. A Serra d'Aiello, il paese che sovrasta la valle dell'Oliva, ancora oggi nessuno vuole parlare dell'altro mistero di questo pezzo di Calabria, l'istituto Giovanni XXIII, chiuso con la forza lo scorso anno, da dove sarebbero spariti pazienti dimenticati. All'epoca i carabinieri cercarono le loro tracce anche nel piccolo cimitero locale, ma nulla venne trovato. E mentre nell'enorme edificio dell'istituto Giovanni XXIII - dove lavoravano centinaia di persone - calava il silenzio complice sugli abusi e sui tesori accumulati, poco più a valle centinaia di camion sversavano indisturbati tonnellate di veleni. Due storie parallele, che accomunano questa valle. Due storie basate su omertà e complicità, e che nessuno oggi vorrebbe più sentire, quasi fossero un marchio di una sorta di destino di dannazione.
I dati delle analisi consegnate ieri in Procura sono chiare, attendono una spiegazione e, da domani, un progetto di bonifica. I livelli di concentrazione dei veleni superano i limiti che la legge stabilisce per i siti industriali, i massimi accettabili e consentiti. L'arsenico, ad esempio, in un campione raggiunge un valore di 146, contro un limite previsto per le zone di "verde pubblico" - come è oggi classificata la valle dell'Oliva - di 20 e contro una concentrazione massima di 50 permessa nei siti industriali. In un altro campione, prosegue la perizia dell'Arpacal, il cadmio è presente in quantità cinque volte superiore alle soglie di legge. E così via, in una lunga lista che nei prossimi giorni arriverà anche all'Ispra, l'organo del ministero dell'ambiente che a sua volta sta preparando altre analisi di riscontro. Per i risultati sulle presenze di sostanze radioattive - spiega il procuratore Giordano - occorrerà aspettare ancora: il dicastero di Stefania Prestigiacomo ha inviato i campioni all'Arpa del Piemonte, della Lombardia e dell'Emilia Romagna, in grado di realizzare le indagini più accurate. Per ora nessun risultato, nessuna verità, nessun «caso chiuso».
A volte è nei dettagli che è possibile intravedere l'essenziale di una storia. C'è un campione raccolto nella zona chiamata Foresta che rimane ancora oggi un vero mistero: da 0 a 16 metri di profondità - spiega l'Arpacal - è presente una grande quantità di granulato di marmo, mentre le scorie sono concentrate nella zona più profonda, fino a venti metri sotto il livello del suolo. È il segno evidente di quella sorta di sistematicità - quasi industriale - utilizzata da chi ha sversato le scorie. Ed è nota la proprietà del granulato di marmo, quella di schermare, di impedire agli strumenti di rilevare radiazioni o altre emissioni. Sedici metri di schermatura, in questo caso, che lasciano aperta la porta alle ipotesi più inquietanti. Un segno che mostra nella sua evidenza la volontà di non far trovare nulla, di impedire analisi ed indagini.
Nella valle del fiume Oliva, quella polvere bianca di marmo che nasconde i veleni sembra quasi fondersi con l'ostinato silenzio delle vittime, che sanno e muoiono con quello sguardo, quasi atavico, della sottomissione. Il luogo ideale per i signori dei rifiuti.