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Rompiamo il silenzio il rischio è l'assuefazione

INTERVISTA

Rompiamo il silenzio il rischio è l'assuefazione
Zagrebelsky: «Ha ragione chi dice che la vicenda è gravissima»

Daniela Preziosi


Coincidenza emblematica, di più non poteva capitare. Mentre si consumava un conflitto di poteri fra governo e presidenza della Repubblica con pochi e foschissimi precedenti, ieri su Repubblica l'associazione Libertà e Giustizia ha pubblicato a pagamento un appello-allarme titolato «Rompiamo il silenzio». Programmato da settimane - sintomo che nell'aria i segnali della precipitazione di queste ore ci sono da tempo, a volerli riconoscere - fotografa un paese dov'è in corso il declino della cultura democratica e il disfacimento sociale: «Perdita di senso civico - elenca il testo -, corruzione pubblica e privata, disprezzo della legalità e dell'uguaglianza, impunità per i forti e costrizione per i deboli, libertà come privilegi e non come diritti. Quando i legami sociali sono messi a rischio, non stupiscono le idee secessioniste, le pulsioni razziste e xenofobe, la volgarità, l'arroganza e la violenza nei rapporti tra gli individui e i gruppi». Non si tratta di «difetti occasionali, ma segni premonitori su cui si cerca di stendere un velo di silenzio, un velo che forse un giorno sarà sollevato e mostrerà che cosa nasconde, ma sarà troppo tardi». Insieme a Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte costituzionale e presidente onorario di Giustizia e Libertà, nel solo primo giorno di pubblicazione l'hanno firmato in 15mila (fra cui Umberto Eco, Claudio Magris, Gae Aulenti, Giovanni Bachelet, Salvatore Veca, Guido Rossi, Sandra Bonsanti). .

Professor Zagrebelsky, a proposito della scelta del governo di presentare un disegno di legge al posto di un decreto non promulgato, Umberto Eco parla di «attentato alla Costituzione». Un suo autorevole predecessore alla Consulta, Giuliano Vassalli, di decisione «pazzesca e gravissima». Qual è il suo giudizio?
Come si può non condividere un giudizio dato da un uomo saggio e moderato come Giuliano Vassalli? Sta succedendo che il potere, quello economico, quello culturale e quello politico, si raggruma in pochissime mani. E per questo diventa insofferente a ogni contropotere. Il capo dello Stato è uno dei contropoteri previsti dalla Carta. Dietro quest'insofferenza i c'è un'idea, demagogica, in senso tecnico, che una volta investiti dal basso, si è legittimati a qualunque cosa. Così ogni forma di bilanciamento è vissuta come un abuso.

Viene però da dire: l'ennesimo appello, mentre dall'altra parte il governo bombarda la legalità costituzionale.
Ma è appunto un appello a «rompere il silenzio». Segnaliamo una serie di difficoltà e carenze che messe tutte insieme ci fanno paura. Anche perché verifichiamo l'assuefazione a cose finora impensabili. Abbiamo il caso Englaro davanti agli occhi. Ma altrettanto grave è quello che sta succedendo sul tema della sicurezza: dieci anni fa si sarebbe mai potuta immaginare una legge che legalizza le ronde? O la messa in discussione della cura delle malattie di base di un essere umano, quale che sia la provenienza o condizione? Fra l'altro la categoria dei «clandestini» non esiste, è creata dal legislatore. L'aberrazione, anche in termini giuridici, è che con una legge si definisce una categoria di soggetti, li si bolla, e si negano loro i diritti fondamentali.

Dieci anni fa non era pensabile: cos'è successo nel frattempo?
È successo che lo spirito pubblico non ha reagito al degrado. È la strada del silenzio che porta, passo dopo passo, anche piccoli passi, ad accettare cose che mai prima ti saresti sognato. C'è perfino di una ragione antropologica, un meccanismo di autoconservazione che, a proposito dell'avvento delle leggi laziali, viene descritto molto bene nelle Lettere della giovinezza di Vittorio Foa. Un'ostinazione molto umana, difensiva, a non voler guardare in faccia la realtà nel momento giusto.

Ragioni antropologiche. Ma anche politiche, dice il vostro appello.
La crisi economica attenta alla concezione del vivere comune e mette in difficoltà la cultura democratica. Le migrazioni fra i paesi suscitano domande e problemi. Ma a tutto questo come si reagisce? Oggi chi crede più nell'uguaglianza, che è il principio fondamentale di ogni società democratica, un valore che sta persino alla base della libertà? E invece prende piede l'idea della società diseguale, quella in cui chi viene da fuori ha meno diritti di chi è nativo.

Uno dei cardini dell'appello è la denuncia dell'attacco alla Carta, della perdita di rappresentatività del parlamento. E di una tendenza e tensione, berlusconiana aggiungeremmo, al presidenzialismo.
La tendenza al presidenzialismo non è solo del premier e di questa maggioranza. Così come non è solo berlusconiana l'idea della semplificazione della politica, che in una certa misura è danno e fa perdere la rappresentatività alle istituzioni. Il nostro sistema elettorale ha trasformato il parlamento in un'assemblea di nominati, non di eletti. E il principio della demagogia: «Il potere scende dall'alto, il consenso sale dal basso». E sa questa definizione dove sta scritta? In uno dei primi articoli dello statuto nazionale fascista. È chiaro che tutto questo porta a decisioni politiche 'in tempo reale', emozionali. Nulla di più pericoloso. La Costituzione, secondo una felice definizione di un filosofo politico, è «ciò che ci si dà quando si è sobri perché valga quando siamo ubriachi». La politica emozionale è questa ubriachezza.

Il silenzio da rompere, suggerisce il vostro appello, è anche quello delle forze che tradizionalmente si riferiscono all'arco costituzionale. Oggi all'opposizione.
Certo, anche. Queste forze ormai hanno paura di fare un'affermazione netta, nell'eterna paura di restare in minoranza. Tanto varrebbe, essendo minoranza, che almeno prendessero posizioni chiare, in cui ci si possa riconoscere. Rendessero chiare le ragioni per identificarsi nei partiti democratici, che invece in questa mancanza di nettezza sono sempre minori. Riflettano, queste forze, sul fatto che l'appello ha raccolto 15mila firme in un solo giorno.

fonte: Il Manifesto.it
09/02/2009
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