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Fermi, sessantatre anni fa iniziava una nuova era

E.Fermi Erano in una ventina, quel 2 dicembre 1942, nella palestra dello stadio universitario di Chicago, quando Enrico Fermi mise per la prima volta in attività la pila atomica sperimentale destinata a tenere a battesimo la nuova era dell'atomo. Si trattava di professori e di studenti, ma c'era anche un "profano", l'industriale Greenewalt, che rappresentava la società Du Pont De Nemours, cui sarebbe stata affidata la produzione delle pile indispensabili per la fabbricazione della bomba atomica. Proprio per lui Fermi aveva voluto che l'esperimento avesse una certa spettacolarità: si trattava di coinvolgerlo nella grande impresa. E per questo era stato predisposto in un angolo della palestra un palco con delle sedie per gli "spettatori".

La catasta delle mattonelle di grafite purissima aveva già raggiunto i cinque metri di altezza e nel suo "cuore" erano già racchiusi i cilindri di uranio; non restava che estrarre le ultime aste di cadmio per dare il via alla fase critica: la pila si sarebbe accesa e avrebbe cominciato a funzionare. Il ticchettio impazzito dei contatori Geiger avrebbe annunciato l'inizio della reazione a catena. Verso mezzogiorno Fermi fece spostare leggermente indietro l'ultima "asta di controllo" ma appena i contatori presero a sussultare ordinò di rimetterla a posto e annunciò che era l'ora di andare a colazione. Tutti avevano rifatto i loro calcoli e avevano concluso che non ci sarebbero state sorprese, ma era meglio procedere con calma.

Dopo la sosta tutti ripresero il loro posto e si ricominciò. Alle 15 e 20 Fermi si volse verso gli "spettatori" e guardando Mr Greenewalt spiegò: "Adesso mostreremo sul serio come si produce la reazione a catena. Farò estrarre la sbarra di un altro paio centimetri . A questo punto i contatori cominceranno subito a salire finché non darò l'ordine di stop". Si volse all'operatore e disse: "George, questa è la volta buona. Tira fuori l'asta di un piede". Subito i contatori Geiger cominciarono a ticchettare, prima lentamente poi con ritmo sempre più accelerato e infine a velocità frenetica. Benché nessuno tra gli scienziati presenti mostrasse sorpresa per quello che stava accadendo, una certa tensione si creò nel laboratorio: dopo tutto ci si stava avventurando in un terreno inesplorato.

Dopo venti minuti Fermi fece reinserire le sbarre e tutti si sentirono più sollevati perché i contatori smisero di ticchettare. Allora ci furono delle strette di mano e fu spiegato a Mr Greenewalt che l'esperimento era finito. Il professor Eugene Wigner, che veniva da Princeton, tirò fuori un fiasco di Chianti e alcuni bicchierini di carta: tutti bevvero due dita di vino e firmarono il fiasco. Subito dopo Arthur Compton, il direttore dei laboratori di Chicago, telefonò a un collega dell'università di Harvard. Disse: "Il navigatore italiano è arrivato nel nuovo mondo". Sebbene il codice fosse stato improvvisato lì per lì da Compton, l'altro comprese al volo e domandò, ansioso: "E gli indigeni come sono stati?" La risposta fu: "Molto cordiali".

L'industriale Greenewalt salutò tutti e si allontanò in macchina. Disse di essere stato impressionato dall'abilità di Fermi, e questo dimostra che lo scienziato aveva saputo drammatizzare uno "spettacolo" altrimenti incomprensibile per un profano. Per il momento il mondo ignorò di essere entrato in una nuova era e i giornali continuarono a parlare degli scontri in Tunisia, della battaglia di Guadalcanal, dei tedeschi accerchiati a Stalingrado, ma della grande vittoria del "navigatore italiano" nessuno seppe nulla.

Enrico Fermi aveva abbandonato l'Italia quattro anni prima, tra l'indifferenza generale. Nessuno gli aveva chiesto di lasciare l'università di Roma, ma a farlo decidere erano state le leggi razziali, dal momento che egli aveva una moglie ebrea. A espatriare l'aiutò una felice circostanza: l'invito a recarsi a Stoccolma per ritirare il premio Nobel che gli era stato assegnato per la fisica. Nessuno sapeva che aveva deciso di non tornare in patria ad eccezione di pochissimi amici intimi: a salutarlo alla stazione c'erano soltanto loro.

a cura di: D. Amendola
02/12/2005
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