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No more ace to play. Siamo ciò che abbiamo voluto

di Giusva Branca - La Calabria ha giocato tutte le sue carte; nulla più da dire, niente più assi da calare.

Il testo – tradotto e parafrasato– appartiene ad una leggendaria canzone degli Abba - “the winner takes it all” - che sottolinea come, quasi sempre, il vincitore prenda tutto.

In Calabria ha vinto il “vecchio”, ha vinto una visione arcaica della società che ha sgretolato poco a poco, dalle fondamenta, uno Stato di diritto che, tutto sommato, non ci appartiene per cultura, per tradizioni.

Chiariamo subito: alla fine – più o meno inconsapevolmente – è esattamente ciò che abbiamo voluto.
La nostra storia è scandita da episodi che sottolineano ad ogni piè sospinto il carattere feudale del nostro modo di essere, la baronia elevata a sistema, i piccoli-grandi soprusi quotidiani di una ristretta oligarchia a dettare i tempi; il diritto continuamente scambiato con il favore.

Senza lavoro, con prospettive di sviluppo inesistenti, con i servizi essenziali sempre più spesso ridotti ad una chimera, travolta dal malaffare e dagli sprechi, per la Calabria è giunta l'ora di dirsi, allo specchio, le cose come stanno.

“No more ace to play” - cantavano gli Abba – e, realmente, gli assi per la Calabria si sono esauriti.
Un serio, approfondito, doloroso esame di coscienza è necessario e, probabilmente non sufficiente.
Siamo proprio così sicuri che questa Calabria non sia esattamente la risultante di ciò che abbiamo voluto?

Probabilmente non esattamente ciò che avremmo voluto, ma la conseguenza di uno o più modi di essere, di concepire il rapporto di forze tra i vari pezzi del territorio.
In pochi, troppo pochi, hanno seriamente combattuto le oligarchie che trasversalmente si sono divise, spartite e mangiate la Calabria.

Il potente, il signorotto di cinquecentesca memoria da noi ha perfettamente titolo ad esistere, con la sua corte, i suoi bravi ed i suoi quotidiani soprusi.

Mai, seriamente, i vessati hanno pensato, nemmeno per un attimo, a sovvertire questo stato di cose e porre fine alle vessazioni; la massima aspirazione dei vessati è sempre stata quella di saltare la barricata, di essere accolti a corte.

In Calabria i”Promessi sposi” sono attualissimi, in tutte le loro sfaccettature.
In pochi antepongono con scienza e coscienza lo Stato di diritto al piccolo tornaconto personale; la bassa macelleria ha sempre il sopravvento e, soprattutto, ciò avviene senza alcun sussulto nelle coscienze collettive, quelle che formano la spina dorsale di una comunità.
Roberto Scarpinato ne “Il ritorno del principe” sottolinea – estendendo il concetto all'intero Paese – che la Costituzione repubblicana, con i suoi principi liberali, sia stata più subita a causa degli eventi che non maturata dal Paese.

Immaginarsi quanto questi principi siano passati realmente, in maniera consapevole in una terra, la Calabria, dove negli anni 70 ed 80 ancora il boss della zona pretendeva ed otteneva nel silenzio generale i favori sessuali delle donne del paese da lui scelte è esercizio semplice.
Ci siamo sempre convinti di essere più furbi degli altri, abbiamo sempre ritenuto che le leggi, le norme – statuali o dell'etica – fossero inutili protocolli da aggirare con facili scorciatoie che fanno regolarmente apparire il furbastro come il migliore.

Da noi non passa più da tempo il concetto di disvalore, solo quello – deviato - di valore, inteso come forza, potenza, potere. E poco importa come questi si siano generati e si mantengano.
L'apologia di Machiavelli ci accompagna ad ogni piè sospinto, unitamente al nostro innato vittimismo che ci regala una straordinaria capacità di trovare valide giustificazioni per ogni nostro comportamento, anche il più inqualificabile.

“Se uno ammazza un altro non gli chiedere perchè” recita un vecchio adagio popolare delle nostre parti; c'è sempre un perchè, un motivo valido. Lo Stato costituito, i valori dell'etica non contano più, probabilmente perchè sono annacquati. Abbiamo un codice tutto nostro che fa a sportellate con i principi dello Stato di diritto e con questi, il più delle volte, trova tristissimi accomodamenti.

In questo disastro etico-socio-morale anche i tanti che capiscono il dramma fanno fatica ad alzare la voce; è come negli incubi, quando provi ad urlare ed il fiato non viene fuori.

Il contesto non vuole, non capisce la ribellione nei confronti del padrone “interno”. Il contesto è pronto a ribellarsi all'ordine costituito “esterno”, nel momento in cui questo viene a turbare equilibri accettati e consolidati nei secoli.

Al signorotto locale, sia esso un politico, un mafioso, un notabile o chiunque venga fuori da questo perverso abbraccio che da sempre crea una melassa gestionale trasversale che rappresenta la classe dirigente il Calabrese non dirà mai di no.

Borbotterà quando non lo ascolta nessuno, ma non avrà mai il coraggio di fargli percepire lo sdegno di massa, il pubblico ludibrio. Sarà pronto ad ossequiarlo e riverirlo, allo stadio come al bar e continuerà ad accettare tutto nella speranza, un giorno, di essere ammesso a corte.
Ed intanto, generazione dopo generazione ci si assuefa ad ogni cosa.

Atarassia ed afasia prendono il sopravvento. Non si ha contezza diffusa dei diritti di ciascuno e, conseguentemente, non si ha cogniozione dei doveri, il che crea una diabolica scala sociale nella quale chi sta sopra utilizza la violenza (verbale, fisica, morale, economica) nei confronti di chi sta sotto. Ogni giorno, sempre e comunque.

Nulla facciamo per pretendere i servizi essenziali (strade, autostrade, sanità) e, contemporaneamente, siamo pronti ad appropriarci di larghe fette di suolo pubblico per uso privato.
Non c'è tensione morale.

E dove non c'è tensione morale non ci sono regole.

Senza regole non c'è futuro.

a cura di D. Amendola, fonte: strill.it

09/02/2009
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