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SPECIALE: Cinquant'anni nello spazio4 ottobre 1957: alle ore 19:28:34 GMT, un razzo russo si alzava rombando da una rampa di lancio nel cosmodromo di Baikonour. La tecnologia spaziale è entrata talmente nel nostro vivere quotidiano (dalle parabole per la ricezione della televisione satellitare ai navigatori satellitari ormai presenti in molte delle nostre autovetture) che ci siamo completamente assuefatti ad essa: non ci sorprende più, non fa notizia. E ci dimentichiamo che, se oggi diamo per scontati i viaggi su Marte e le foto da satellite su Internet, questo lo dobbiamo all’entusiasmo ed all’ingegno di migliaia di tecnici, ingegneri e scienziati. Nel giro di una dozzina di anni, dal 1957 al 1969, si ebbe, pur se sotto la sferza di una competizione ideologica e politica senza quartiere, un’evoluzione tecnica e scientifica senza precedenti, dei cui positivi risultati ancora ci avvantaggiamo a distanza di mezzo secolo. Fino al 4 ottobre 1957 l’umanità non era riuscita ad allontanarsi più di cento chilometri dalla superficie del pianeta; meno di dodici anni dopo, il primo uomo posava il piede sul suolo della Luna. Tutto cominciò apparentemente come una competizione scientifica: nell’agosto del 1955 alcuni scienziati sovietici, durante un congresso astronomico internazionale a Copenhagen, avevano annunciato che durante l’Anno Geofisico Internazionale (la cui durata era stato fissata in effetti dal primo luglio 1957 al 31 dicembre 1958, in corrispondenza del massimo di attività del ciclo undecennale del Sole) l’Unione Sovietica avrebbe lanciato un manufatto umano in orbita intorno alla Terra. Neanche a farlo apposta, il presidente americano aveva rilasciato un’analoga dichiarazione qualche giorno prima (il programma del primo satellite americano si sarebbe poi chiamato Vanguard). Si era però in clima di piena “guerra fredda” e la competizione fra le due superpotenze era frenetica. Nel timore che gli americani potessero arrivare primi al traguardo, Korolev e Tikhonrarov furono sollecitati dai massimi dirigenti sovietici a ridurre e semplificare sempre più il progetto del satellite. Si arrivò quindi alla definizione dello Sputnik-1 (“Sputnik” in russo vuol dire per l’appunto “satellite”), che fu anche denominato PS-1 (acronimo di “Prostějšij Sputnik”, cioè “satellite più semplice”). Ma come era effettivamente realizzato lo Sputnik-1? Il primo satellite artificiale era costituito da due semisfere metalliche in una speciale lega di alluminio, saldate fra loro e sigillate ermeticamente. All’interno della sfera, che aveva un diametro di poco più di 58 centimetri, era stato precedentemente introdotto azoto ad una pressione di 1,3 atmosfere: ciò evitava di far lavorare le batterie elettro-chimiche nel vuoto dello spazio.
All’esterno della sfera, perfettamente liscia e translucida, spuntavano le ben note quattro antenne: due lunghe 239 centimetri, le altre due lunghe 290 centimetri.
L’interno dello Sputnik era altrettanto spartano (figura 1): oltre a due trasmettitori da un watt di potenza d’uscita (che lavoravano, come vedremo, alle frequenze di 20,005 MHz e 40,002 MHz ) ed alle tre batterie allo zinco-argento, c’erano solo alcuni sensori di temperatura e pressione ed un piccolo ventilatore (avete letto bene!), comandato da un termostato. Ventilatore e termostato costituivano un primitivo (ma efficace) sistema di controllo termico, necessario a rendere il più possibile omogenee le temperature all’interno della sfera ed a mantenerle fra i 20 ed i 30 gradi centigradi. Il controllo termico era ulteriormente aiutato dal fatto che l’intero satellite ruotava (in gergo “spinnava”) intorno al proprio asse alla velocità di 7 giri al minuto. La notizia suscitò reazioni immediate e contrastanti: stupore, entusiasmo, incredulità, timore. Per gli americani, soprattutto, si trattò di un vero e proprio “shock”. Le implicazioni strategico-militari dell’impresa erano evidenti: se nello spazio giravano i satelliti sovietici, allora avrebbero potuto girare anche i missili a testata nucleare. E’ doveroso ricordare, fra i primi che ricevettero il segnale dello Sputnik, i fratelli italiani Achille e Gian Battista Judica Cordiglia, recentemente definiti, in una trasmissione televisiva su History Channel, “pirati dello spazio” (“space hackers”). I due geniali radioamatori, dopo l’esperienza dello Sputnik, allestirono a Torino ( in località Torre Bert) un sofisticato centro di radio ascolto spaziale che suscitava l’invidia ed il rispetto delle agenzie spaziali ( e dei servizi segreti) di tutto il mondo. Le batterie dello Sputnik continuarono ad alimentare i trasmettitori per tre settimane. Dal 26 ottobre il satellite divenne muto, continuando a ruotare silenziosamente intorno alla Terra. La sua orbita però si degradava lentamente ed il perigeo in particolare (punto dell’orbita più vicino alla superficie terrestre) si avvicinava pericolosamente al limite dell’atmosfera. Il 4 gennaio 1958, all’ 1:58 GMT, Sputnik 1 si disintegrò nell’atmosfera, dopo aver percorso 1367 orbite, per un totale di 70 milioni di chilometri nello spazio. Sopite (ma non del tutto) le polemiche ideologiche e politiche di quegli anni, possiamo oggi rendere omaggio agli artefici di una delle pagine più significative della nostra storia recente, che avrebbe cambiato la vita di noi tutti. Per sempre. Fonte: Unione Astrofili Italiana04/10/2007 |
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