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Esecuzione inutile se non cambia la strategia Usa

Esecuzione inutile se non cambia la strategia Usa

di Stefano Silvestri Saddam Hussein

Per oltre trent’anni (più di venti da dittatore unico) Saddam Hussein è stato il protagonista della storia irachena: la sua esecuzione chiude probabilmente il capitolo del cosiddetto “nazionalismo arabo”, di cui fu uno degli epigoni, insieme con altri dittatori quali il siriano Assad e l’egiziano Nasser. Quelle esperienze tentarono la modernizzazione degli Stati arabi in chiave insieme laica e nazionalista (con vaghe sfumature socialisteggianti), ma fallirono tutte miseramente sia al loro interno che all’estero, nella tragedia delle numerose guerre arabo-israeliane e, per l’Iraq, nelle guerre contro l’Iran, il Kuwait e gli Stati Uniti. Ma forse il fatto più tragico è che esse ci lasciano un’eredità ancora peggiore, di ascesa di movimenti fondamentalisti e forse persino di una ripresa del conflitto politico-confessionale tra sciiti e sunniti. La fine di Saddam Hussein e il caos in cui è piombato l’Iraq sono un segnale preoccupante per tutto il resto degli Stati arabi, a cominciare dai due più forti ed importanti, anch’essi eredi dei passati movimenti nazionalisti: Egitto e Siria.

Era probabilmente una morte inevitabile. Non si esce da un periodo così lungo e sanguinoso di dittatura assoluta senza qualche forma di drammatica cesura, o anche di vendetta. Saddam meritava certamente la massima pena, ma il processo che ha subito e l’esecuzione quasi clandestina ed affrettata che gli hanno fatto seguito non hanno certamente provocato quella sorta di catarsi democratica che forse gli americani avevano sperato di realizzare.

Benché buona parte dei combattimenti in corso in Iraq vedano come protagonisti antichi seguaci di Saddam e del suo partito unico, il vecchio dittatore non era più da tempo la guida e l’ispirazione della rivolta: alla peggio poteva essere considerato un simbolo nazionalista, sbandierato più o meno tatticamente da alcuni rivoltosi, ma proprio per questo la sua esecuzione rischia di essere del tutto inutile. I simboli non scompaiono solo perché li si manda sulla forca.

Nella migliore delle ipotesi possiamo dunque sperare che questa esecuzione capitale non muti lo scenario in peggio. In meglio c’è forse solo la possibilità che il debolissimo governo di Baghdad tragga da questa sua decisione la forza e la giustificazione per tentare con maggiore decisione e coerenza un processo di pacificazione nazionale, addossando ogni responsabilità del passato sulla schiena del dittatore giustiziato e di pochi altri suoi complici. Ciò potrebbe permettergli di girare la pagina e di sostenere che l’Iraq non deve più attardarsi sul passato, ma pensare solo all’avvenire.

Non sappiamo ancora se gli uomini attualmente al governo in Iraq avranno questo coraggio e questa capacità, ce lo auguriamo. Una cosa però è chiara: non potranno essere veramente credibili e non riusciranno a condurre una simile politica se allo stesso tempo non si delineerà un deciso mutamento della strategia, del ruolo e delle presenza americana in Iraq. Purtroppo, fino ad ora, il presidente Bush non sembra ancora aver preso pienamente atto della situazione, e appare restio a mutamenti significativi. Ciò potrebbe aggiungere tragedia a tragedia.

a cura di: D. Amendola
fonte: Il Sole24ORE.com
30/12/2006

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