IL VENTINOVE settembre del '43, nelle acque di Malta, sulla nave britannica “Nelson”, Eisenhower e Badoglio sottoscrivevano l'atto definitivo dell'Armistizio tra l'Italia e gli Alleati. L'8 settembre precedente, era stato proclamato l'Armistizio di Cassibile (firmato effettivamente il 3 dello stesso mese); mentre nei giorni successivi, si consumava l'eccidio di Cefalonia in cui circa diecimila mila italiani della Divisione Acqui perirono per mano dei tedeschi, in battaglia o per fucilazione.
In quei giorni, furono a migliaia gli uomini e le donne di tutta Italia che passarono nelle formazioni partigiane. Tanti uomini e donne che abbandonarono “il mondo ordinario e domestico”, perdendo la propria individualità e rinascendo “a nuova vita mediante battesimo”, ovvero con l'adozione del nome di battaglia partigiano “che sancisce il rito d'ingresso in una società altra”.
Luigi Gandolfo – un simpatico e loquace signore genovese con 81 primavere sulle spalle - è uno di quei partigiani che hanno combattuto per la causa della Libertà contro i nazifascisti. È capitato – durante le ultime vacanze estive che passa nella nostra regione da più di 50 anni (ha sposato una calabrese) - di ascoltarlo raccontare le sue esperienze di vita. Spesso i suoi ricordi cadono sugli anni in cui, più o meno a 17 anni (è della classe 1925), abbandona la città di Genova per seguire Aldo Gastaldi, nome di battaglia “Bisagno”, uno dei maggiori esponenti della Resistenza ligure che a 22 anni, già sottotenente del Genio, addetto a funzioni di marconista a Chiavari, forma sulle alture di Cichero, una frazione di San Colombano Certenoli sulle pendici del Monte Ramacelo, la più famosa e più temuta divisione operante nella zona, conosciuta appunto come Divisione Cichero.
«Quando sono arrivato su – rammenta Gandolfo -, le testuali parole sono state queste: "Guarda, qui devi decidere, perché qui niente può renderti gradevole la vita: c'è da rischiare, da fare della fame, prendere del freddo, tutti insieme per combattere questo nemico. Se vuoi rimanere, se no sei libero di andare dove vuoi". Così – dice - sono rimasto su con gli altri».
Nelle memorie del partigiano, che venne ribattezzato col nome di battaglia di Garibaldi per i suoi capelli biondi, si addensano gli avvenimenti, come se fosse appena ieri. La mente va a quella vita passata per ben 20 mesi tra i monti, tra turni di guardia, corvées, pattugliamenti, addestramento all'uso delle armi, rastrellamenti e duri combattimenti. Una esperienza drammatica, in cui vedi uccidere tuoi compagni e in cui capita, pure, di uccidere.
Il Partigiano Garibaldi, che aveva la mansione di staffetta, ci racconta dei suoi compagni di viaggio. Personaggi come il già ricordato Aldo Gastaldi; Giovanni Serbandini (nome di battaglia Bini), poi deputato del PCI, poeta, giornalista e fondatore della edizione genovese de L'Unità; Giovambattista Canepa (nome di battaglia Marzo) e molti altri. Soprattutto però, ci narra della grande partecipazione popolare della Liguria alla guerra di Liberazione (18 mila combattenti, 3 mila morti); dell'orgoglio di essersi liberati da soli; e della mitica resa tedesca “senza condizioni” firmata dal generale Gunther Meinhold il 26 aprile e consegnata nella mani dell'operaio dell'Ansaldo, Remo Scappini.
Luigi Gandolfo, ora che il vento è cessato ed anche la bufera si è calmata, però non smette mai – mentre ci mostra la tessera dell'Anpi e la stella rossa garibaldina che portava sul cappello da combattente - di ricordare e raccontare gli avvenimenti di quegli anni. Le storie di queste persone speciali vanno certamente raccontate. Sono memorie da trasmettere ai giovani di «quest'Italia – scrive Franco Castelli, autore di una raccolta di testimonianze sui partigiani - così pericolosamente proclive alla cancellazione del passato, alla scomparsa dei ricordi, alla mistificazione strumentale della storia del Novecento».